Ipse dixit. La lezione di Serge Latouche agli architetti
In platea, un mare di architetti a lezione di sostenibilità. In cattedra, Serge Latouche, il guru della decrescita, di una società disintossicata dal culto dello sviluppo fine a se stesso. Loro sono decine di professionisti di tutto il mondo arrivati a Roma per il convegno “The architecture of well tempered environment“, in preparazione del prossimo congresso dell’Uia (Unione Internazionale Architetti) che sarà quest’anno a Tokio, a fine settembre. Sono pronti finalmente a «una presa di responsabilità verso l’ambiente, progettando in modo sostenibile». E allora, chi meglio di lui poteva indicare la strada da seguire?
Francesca Sartogo, presidente dell’associazione Eurosolar Italia e tra i fondatori della bioarchitettura nel nostro Paese, non ha avuto dubbi: Latouche, economista e filosofo, professore emerito all’università Paris XI e autore di numerosi libri sulla decrescita, tra cui Come si esce dalla società dei consumi (Bollati Boringhieri, 2010), è la persona ideale.
«Siamo di fronte a un disastro urbano, causato dalla società della crescita. È il risultato di logiche che sfuggono ad architetti e urbanisti», esordisce il professore bacchettando i suoi ascoltatori. «Il problema è che l’architettura contemporanea è spesso seducente quando si stratta di ville ed edifici prestigiosi, ma ha fallito in un quadro più generale, nell’impedire cioè la disgregazione sociale e la cementificazione dell’ambiente». Una responsabilità pesante per una professione che ormai non può più permettersi di fare solo edilizia bella, ma ha il dovere di indirizzare in modo nuovo l’evoluzione della città, spiega Latouche. Come si è arrivati a questo punto? «Viviamo oggi in una città produttivista, pensata per le automobili. Abbiamo assistito all’esplosione dei centri storici, con la marginalizzazione delle classi popolari nelle periferie. L’Iperpolis attuale, piena di “non-luoghi” come stazioni e centri commerciali, diventerà presto una Necropolis».
Gli architetti ascoltano attenti, si sentono investiti di grandi responsabilità, e aspettano ora da Latouche qualche risposta. «Per costruire case adatte alla nuova società della decrescita, bisogna prima di tutto capire che cosa essa sia. Partirei con il definirla piuttosto una a-crescita: un ateismo cioè verso lo sviluppo fine a se stesso. L’economia della crescita ha distrutto la città e il senso dei luoghi, lacerando il territorio», insiste.
Per questo c’è bisogno di un nuovo corso, in cui «la decrescita sarà scelta, e non imposta. Non si tratterà di un regresso, ma di una a-crescita dell’industria, a favore di un aumento dell’aria pura, dell’acqua pulita e degli spazi verdi».
Alla base di questo capovolgimento, ci sono otto parole chiave, le famose otto R: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare e riciclare. Sono termini che parlano della necessità di un nuovo inizio, «sereno, sostenibile e conviviale». E allora, si appassiona il professore, «bisogna ritrovare un legame con la natura, riterritorializzare la vita».
Il modello delle nuove città deve essere quello di «una galassia di piccoli villaggi, quartieri autonomi anche dal punto di vista energetico grazie alle rinnovabili, molto adatte a una società decentralizzata, e popolate da ciclisti e pedoni». Una soluzione anche al problema dell’impronta ecologica dei centri urbani: «Nel 2050, si calcola che per produrre tutto ciò di cui ha bisogno la città, serviranno 500 metri quadrati per ogni metro urbanizzato». Una follia che non si può risolvere semplicemente costruendo in verticale: «Bisogna piuttosto progettare città compatte, perché la vita individuale è oggi un’eresia urbanistica». Dunque, le città sostenibili di domani dovranno avere «case co-abitate, botteghe di quartiere, piste ciclabili, sistemi di produzione diversi dalla grande industria, e poi piazze, centri sportivi e aree pedonali».
In questi anni, in molti hanno provato a seguire questa strada, ma non tutti ci sono riusciti. «Hanno fallito le eco-città cinesi, perché lì si tratta solo di abitare meglio, senza cambiare il rapporto dell’uomo con l’ambiente. E non hanno effetti sul resto della città i quartieri sostenibili costruiti in diversi Paesi: sono isole verdi in un mare di inquinamento urbano che non potranno trasformare». Più riusciti, dice Latouche, sono invece gli esperimenti delle Transition town, «un movimento nato dal basso, che cerca prima di tutto la resilienza, cioè la capacità di resistere ai cambiamenti del pianeta».
Veronica Ulivieri