Cibo e futuro del pianeta: il 18° CinemAmbiente apre con il film-evento “10 Billion”
“L’uomo non è più ciò che mangia. Non sa più cosa mangia. Forse perché non sa più chi è”. È l’ecotalk del professor Andrea Segrè, massimo esperto italiano di spreco alimentare, ad aprire a Torino la 18° edizione di CinemAmbiente. Eccezionalmente spostato ad ottobre, per intercettare – come ha spiegato l’assessore all’Ambiente Enzo Lavolta – il Forum Mondiale sullo Sviluppo Locale e l’arrivo del segretario generale dell’ONU, il festival di Gaetano Capizzi dedica quest’anno un’attenzione particolare al tema “cibo”.
Non che negli ultimi mesi se ne sia poco discusso. Ma nell’Italia dell’Expo, fra scorpacciate di insetti e pesci palla, padiglioni luna-park e pizze chilometriche, leccornie che costano come un gioiello e hamburger di McDonald, l’argomento sembra aver preso la piega della spettacolarizzazione. “La parola cibo ha smarrito il suo significato originario”, ha ricordato Segrè, prima di lanciarsi in una divertente e documentatissima lecture sul tema dell’anno. Cibo sprecato, negato, distrutto, cibo dietetico o ipercalorico, cibo alto e cibo basso, cibo spadellato in tv o esposto in mastodontiche sagre planetarie: “Ora però – ha concluso il professore – avremmo bisogno di un cibo educato”.
Tolto di mezzo il luna-park, CinemAmbiente mette allora l’accento su educazione e consapevolezza, partendo con un regista che ha dedicato diversi anni del suo lavoro a scoprire, studiare e spiegare i meccanismi dell’industria alimentare globale. Già autore di Taste the Waste (2011) e Foodsavers (2013), il tedesco Valentin Thurn, componendo un’ideale trilogia, torna ancora sull’argomento con 10 Billion – What’s on Your Plate?. “Il film è un sequel – racconta Thurn in collegamento via Skype, davanti a una platea gremita – La gente mi chiedeva di spiegare perché così tanto cibo oggi venga sprecato, mi chiedeva di trovare delle risposte, delle possibili soluzioni. Così mi sono messo in viaggio”.
10 Billion è appunto un lungo viaggio intorno al mondo, il cui itinerario è tracciato seguendo una catena di domande e risposte, il filo logico di un ragionamento che cerca di arrivare al cuore del sistema cibo. Thurn si pone le domande che ogni suo spettatore potrebbe farsi, ma ha il privilegio di poter andare a cercare le risposte a migliaia di chilometri di distanza, da un capo all’altro del pianeta. La prima domanda, quella cruciale, quella che ci perseguita come un incubo, quella che campeggia – insoluta – nelle agende di tutti potenti della Terra, è: cosa mangeremo quando, a metà del secolo, la popolazione mondiale raggiungerà i 10 miliardi?
Considerato che il mercato alimentare mondiale è controllato, per tre quarti, da una decina di multinazionali, il punto di partenza è presto trovato. La base della piramide non sono i campi coltivati, ma l’industria delle sementi, attualmente cuore caldo del dibattito sugli Ogm. Ma se nei laboratori di ricerca della Bayer sono convinti che l’unico modo per evitare una guerra globale per il cibo sia creare semi ibridi dalla super-resa, così non la pensa ad esempio l’indiana Kusum Misra, che, ispirandosi a Vandana Shiva, ha fondato una banca dei semi per rendere indipendenti gli agricoltori del suo paese.
Dalle risaie indiane alle fattorie biologiche tedesche, passando per le coltivazioni estensive di soia che letteralmente stanno rubando la terra agli africani (il famigerato land grabbing), l’agricoltura oggi è intrappolata in un dilemma: da una parte c’è il sistema industriale, che produce molto, ma consuma troppo in termini di suolo, acqua, energia, risorse naturali e ambientali; dall’altra, l’agricoltura biologia, che rispetta l’ambiente ed è certo più salutare, ma ha una resa decisamente inferiore (-25%). Thurn è chiaramente innamorato della seconda, ma ha l’onestà di chiedersi se sia una soluzione sufficiente quando la si estenda su scala globale.
Il nodo cruciale – ragiona il regista – non è quanto, ma cosa mangiamo. Finché mangeremo carne (e ne mangeremo sempre di più, come dimostra la crescita dell’industria del pollame in un paese tradizionalmente vegetariano come l’India), le risorse in gioco saranno sempre troppe. Oggi più di un terzo della terra coltivabile è utilizzato per produrre mangimi per bestiame. “Se tutta la popolazione mondiale consumasse tanta carne quanta se ne consuma nei paesi occidentali, avremmo bisogno delle risorse di tre pianeti”. Thurn si mette allora sulle tracce delle soluzioni più tecnologiche e avveniristiche per eliminare la dipendenza dalle risorse naturali, andando a curiosare in una asettica ed efficientissima fabbrica di insalata giapponese, che impacchetta nove raccolti all’anno senza utilizzare neanche un metro quadrato di terra, o assaggiando un pionieristico hamburger sintetico, in tutto e per tutto uguale alla carne, ma prodotto da cellule staminali in un fantascientifico centro di ricerca di Maastricht.
Che sia il cibo del futuro? Forse, ma di sicuro non fino a quando una polpetta costerà quanto una vacanza ai Caraibi. Perché l’ultima, ma fondamentale questione affrontata dal film, in un mondo in cui la forbice della diseguaglianza sociale è sempre più ampia, è proprio l’accessibilità al cibo. Speculazione e finanza non dovrebbero dettare legge in un settore in cui la “merce” è necessità vitale per ogni essere umano. Si fa strada allora, come ideale soluzione a sprechi, diseguaglianze e sostenibilità, la via dell’autoproduzione e dell’auto-sostentamento. Una visione di mondo in cui, dal piccolo villaggio africano alle transition town europee, dalla comunità di contadini indiani alla fattoria urbana di Milwaukee, dai tedeschi CSA (Community Supported Agriculture) alle azioni di guerrilla gardening di un’intraprendente signora inglese (Incredible Edible), siano i consumatori ad interessarsi in prima persona, e sporcandosi le mani con la terra, di cosa andrà a finire nei loro piatti.
Giorgia Marino
Giorgia Marino