“Là suta”: storia kafkiana di un’eredità nucleare
Là suta. Là sotto. Così, con il tipico understatement sabaudo, gli abitanti di Saluggia, piccolo borgo nel vercellese, si riferiscono a ciò che si trova in un avvallamento lungo il fiume Dora Baltea, uno dei principali affluenti del Po. Qualcosa che non si deve vedere, qualcosa a cui è meglio non pensare: 200 metri cubi di materiale liquido radioattivo, il più grande cimitero nucleare d’Italia. A pochi metri da un corso d’acqua.
All’eredità di un ventennio di nucleare italiano e alla kafkiana vicenda della sua continuamente rinviata messa in sicurezza è dedicato “Là suta”, il documentario di Cristina Monti, Daniele Gaglianone e Paolo Rapalino, presentato in prima assoluta a CinemAmbiente.
“Ci siamo chiesti perché raccontare questa storia – ha spiegato Rapalino – In fondo, e per fortuna, la catastrofe, temuta durante l’alluvione del 2000 in Piemonte, non si è verificata. Ci sembrava però una vicenda emblematica della storia del nucleare in Italia”. Ne è nato così un racconto fitto e ricco di materiali (filmati d’archivio, cronache, reportage di proteste, interviste), che cerca di mettere ordine nell’intrico di burocrazia, interessi economici e trame politiche cresciuto attorno a quello che doveva essere il deposito “temporaneo” di Saluggia, trasformatosi negli anni in un pericolosissimo simbolo di inerzia amministrativa.
Tra gli anni ’60 e gli ’80, prima che il referendum del 1987 bandisse la produzione di energia atomica sul territorio nazionale, l’Italia avviò la costruzione di una serie di impianti: dovevano essere una ventina, secondo il “piano Donat-Cattin”; se ne realizzarono quattro. Quello di Trino Vercellese – che con Saluggia condivide il triangolo di terra delimitato dalla Dora e dai due grossi canali irrigui che alimentano le risaie piemontesi – fu inaugurato dalla Sorin (oggi un colosso del settore biomedico) all’inizio degli anni ’60, come centro di ricerca all’avanguardia sull’energia nucleare. Il polo comprendeva, accanto al reattore di Trino, anche il deposito Eurex a Saluggia, che funzionò per alcuni anni come impianto di ritrattamento dei rifiuti di combustione, allo scopo di recuperare il preziosissimo plutonio residuo.
Le immagini di repertorio – macchina del tempo filmica, che fa da contrappunto alle recenti interviste dei protagonisti di allora – mostrano i cantieri della Sorin, gli scienziati in camice bianco, i tecnici che si muovono impacciati in “tute da extraterrestri”, e infine l’accensione del reattore, condita da un po’ di retorica sulle “magnifiche e progressive sorti” del paese e da una colonna sonora da fantascienza d’antan. La potenza dell’atomo, fra speranza e timore reverenziale, era stata accolta come la soluzione per affrancarsi dai combustibili fossili.
“Ma le quattro centrali italiane, durante tutto il periodo in cui furono attive, produssero 93 miliardi di kilowatt/ora di energia – ricorda Gian Piero Godio, ex ricercatore del centro Eurex e oggi attivista di Legambiente – Per un paese che ne consuma in media un miliardo al giorno, il prodotto di questa lunga stagione nucleare fu abbastanza risibile: poco più di tre mesi di energia”.
In compenso, ne abbiamo ricavato un lascito che sarà radioattivo per millenni e che attualmente si trova tutto nel vercellese, accanto al letto di un fiume da cui attingono importanti acquedotti e che, disgraziatamente, si è già fatto notare per la tendenza a esondare. “Siamo di fronte a una situazione unica al mondo – dichiarò qualche anno fa il Nobel Carlo Rubbia, presidente fino al 2005 dell’Enea (comitato nazionale per la ricerca e lo sviluppo dell’Energia Nucleare e delle Energie Alternative) – La possibilità, se pure remota, di una contaminazione della falda freatica, e quindi di tutta la Pianura Padana, sarebbe una tragedia a livello planetario”.
Cosa fare dunque? “Un paese normale avrebbe dovuto già da anni provvedere a solidificare le scorie e a trasferirle in un luogo un po’ meno demenziale”, osserva amaramente Godio. Attualmente la Sogin, società di Stato incaricata dello smantellamento dell’impianto di Saluggia, sta costruendo nell’area una struttura per la solidificazione (il Cemex) e un nuovo deposito temporaneo sicuro (D2). Ma sugli aggettivi “temporaneo” e “sicuro” gli attivisti e i cittadini di Saluggia hanno i loro legittimi dubbi. La paura è che il deposito D2 diventi definitivo, e se così fosse non si sarebbe risolto nulla. “Qui siamo nell’alveo di un fiume: l’area, per le sue caratteristiche morfologiche, è stata dichiarata non edificabile. – spiega Umberto Lorini, giornalista della Gazzetta di Vercelli – Non sarebbe sicuro neanche un garage, figuriamoci un deposito di scorie nucleari!”.
Il film si chiude, o forse rimane aperto, sulla disillusione di quanti in questi anni si sono battuti per la vittoria del buon senso, sulla loro residua speranza di essere ascoltati e sulla paura di perdere una fatale lotta contro il tempo. Fra 100.000 anni, le scorie nucleari che dormono “là sotto”, dietro la boscaglia, saranno ancora radioattive. Loro hanno davanti un’eternità, noi solo una vita.
Giorgia Marino