Il biologico conquista la prima pagina (e il grande pubblico)
“Ci fa piacere – scrive l’ente certificatore CCPB in una nota - vedere che, per una volta, anche i media di massa riconoscono al biologico un valore positivo per tutti, e non solo per una nicchia di consumatori salutisti e (tra le righe) un po’ fanatici”.
L’articolo di Emanuele Coen, apparso sullo scorso numero del Venerdì di Repubblica, parla infatti degli aumenti record nelle vendite dei prodotti biologici, collegandoli agli effetti della crisi. Il titolo è “Bio: la crisi dà più spazio ai buoni di natura”. Considerate le precedenti incursioni della stampa mainstream nell’ambito del biologico - per mettere principalmente in luce le truffe del “falso bio”- questo, secondo CCPB è un segno incoraggiante.
Le ragioni di questo “cambio di rotta” della stampa sono da cercarsi innanzitutto nei numeri, inconfutabili. Le elaborazioni di Cia su dati Ismea, così come quelle della Coldiretti raccontano – a fronte di un brutale crollo dei consumi alimentari - non solo un’ottima tenuta, ma una crescita sorprendente nel nascente mercato del “cibo pulito“, che arriva fino al 101% nel primo quadrimestre dell’anno. Ma è anche significativo che questo aumento si registri anche per prodotti lavorati, che il senso comune accosta meno al biologico, come formaggi, crackers, pasta.
C’è poi, sottolinea CCPB, il ruolo della certificazione, che rinforza il messaggio positivo di questi prodotti. La stampa coglie l’occasione dei venti anni del regolamento CEE, che per la prima volta ha disciplinato il settore, per ricostruire un ritratto fedele del biologico e riconoscerne la popolarità non solo nei negozi specializzati ma anche nei grandi supermercati e perfino nei discount. Il marchio europeo della “foglia verde” non è più solo una garanzia, ma sembra ormai essere diventato una cifra di riconoscibilità premiata dai consumatori.
Il bio comincia dunque ”a pensare in grande”, ma sulla strada restano ancora alcuni interrogativi. Per esempio, il rapporto del settore con il mercato equo e solidale, ma soprattutto con la filiera corta: il cosiddetto “chilometro zero”. Questa sarà una delle prossime sfide del mercato, che dovrà trovare un equilibrio tra due aspetti della produzione spesso erroneamente identificati: un prodotto a filiera corta non è necessariamente biologico, e viceversa. Qual è il comportamento che rende l’impronta del consumatore più leggera? Bisogna privilegiare la filiera corta o il bio, anche a costo di acquistare cibo proveniente da lontano? Secondo Coldiretti (che sposa la causa dei coltivatori italiani) il chilometro zero è oggi imprescindibile, mentre secondo Andrea Ferrante, presidente di Aiab (Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica) “è legittima la curiosità di assaggiare cibi di altre culture, dobbiamo evitare esagerazioni autarchiche”.
“Il biologico è sicuramente un settore attento alle tipicità e al ‘locale’ - commenta Fabrizio Piva, amministratore delegato di CCPB, cercando una mediazione - ma una volta per tutte vogliamo definire cosa intendiamo per ‘chilometro zero’, vogliamo dare una chiave di lettura al consumatore? Se si tratta di prodotto italiano chiamiamolo per nome ed evitiamo allocuzioni il cui zero non ha alcun significato. Il biologico è biologico indipendentemente dal luogo di coltivazione, il metodo di produzione non ha confini e conferisce dignità a tutti coloro che producono nel rispetto delle regole che ne contraddistinguono le tecniche e la storia. Non credo che con l’autarchia facciamo un gran servizio al nostro sistema produttivo anche se preferisco, a parità di condizioni, prodotti italiani. Facciamo un gran servizio al nostro sistema produttivo se creiamo le condizioni perché sia più competitivo sui mercati mondiali e non certo chiudendo le frontiere: se lo facessero anche i tedeschi per noi sarebbero guai, e seri”.