Black Friday? No, “Buy Nothing Day” contro la deriva del consumismo selvaggio
Una nuova ricerca pubblicata ieri da Greenpeace Germania, alla vigilia del “Black Friday”, la giornata che negli Stati Uniti segna l’inizio dello shopping natalizio e che sta diventando popolare anche in Italia - con sconti selvaggi e istigazione all’acquisto compulsivo – evidenzia le gravi conseguenze sull’ambiente dell’eccessivo consumo, in particolare di capi d’abbigliamento. “Difficile resistere alla tentazione di un buon affare, ma l’offerta di prodotti a basso costo fa sì che consumiamo e produciamo rifiuti a un ritmo più elevato di quello che il nostro pianeta può sostenere” afferma Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace.
In risposta al consumismo sfrenato un crescente numero di persone sceglie quindi di astenersi e osservare il “Buy Nothing Day”, a cui partecipa anche Greenpeace, che si celebra oggi in coincidenza con il Black Friday. Per ricordare ai consumatori quanto spesso gli acquisti d’impulso finiscano in discarica, alcune “trash queens”, vestite con abiti frutto del riciclo di indumenti dismessi, sfileranno in tre città asiatiche ed europee.
La ricerca pubblicata da Greenpeace Germania mostra come il business dell’abbigliamento a basso costo si stia espandendo rapidamente. In media una persona acquista il 60 per cento in più di prodotti d’abbigliamento ogni anno e la loro durata media si è dimezzata rispetto a 15 anni fa producendo montagne di rifiuti tessili. La produzione di vestiti è raddoppiata dal 2000 al 2014, con le vendite che sono passate da un miliardo di miliardi di dollari nel 2002 a 1,8 miliardi di miliardi nel 2015. Si prevede che nel 2025 arrivino a 2,1 miliardi di dollari. Ma la qualità dei prodotti continua a calare, anche a causa della delocalizzazione produttiva.
L’impatto ambientale deriva da vari fattori quali le sostanze chimiche usate dall’industria tessile che inquinano fiumi e oceani e le elevate quantità di pesticidi impiegati nelle piantagioni di cotone che contaminano le terre agricole o le sottraggono alla produzione di alimenti. Uno dei costi maggiori per il pianeta viene però dal crescente uso di fibre sintetiche: il poliestere, in particolare, emette quasi tre volte più CO2 nel suo ciclo di vita rispetto al cotone. Presente già nel 60% dell’abbigliamento, questo materiale può impiegare decenni a degradarsi e contaminare l’ambiente marino sotto forma di microfibre in plastica.
“Le aziende dell’abbigliamento dovrebbero ripensare questo modello di consumo usa e getta e produrre capi che durino più a lungo e che siano riparabili e riutilizzabili” spiega Ungherese. “Come consumatori prima di effettuare il nostro prossimo acquisto chiediamoci: ne ho realmente bisogno?”.
Greenpeace si occupa dell’impatto del settore del tessile dal 2011, con la campagna Detox che ha avuto l’adesione di 78 tra grandi marchi internazionali e numerose realtà tessili italiane, 27 delle quali del distretto tessile di Prato. Queste imprese si sono impegnate a eliminare l’uso di sostanze chimiche pericolose entro il 2020 e stanno già facendo molti progressi in questo senso. Tuttavia, ogni progresso sarà vanificato se continua la tendenza a produrre vestiti a basso costo con crescenti livelli di produzione e consumo di risorse.