Il cuciniere errante Carmelo Chiaromonte: “Non compro mai nei centri commerciali”
Si è guadagnato l’appellativo di cuciniere errante, sia per il nome del suo ristorante catanese, sia per i suoi numerosi viaggi che lo hanno portato a esplorare e fare ricerca gastronomica. Nato a Modica, Carmelo Chiaromonte ha viaggiato molto in Italia e all’estero. Il suo è un approccio poliedrico con la cucina. Collabora con progetti teatrali, in qualità di scenografo gastronomico; scrive su tre testate regionali di Sicilia e saltuariamente è autore televisivo per Gambero Rosso Channel e Geo & Geo per Raitre. Il suo primo libro è stato “A tutto tonno” nel 2005, seguito da “Il ragusano Dop”, scritto con un gruppo di ragazzi diversamente abili nel 2006, “L’estetica del fungo” nel 2010, “Arancia, percorsi siciliani di cultura, natura e gastronomia” nel 2012 e “Petite philosophie du champignon” nel 2013.
D) Chiaromonte, nel suo primo libro ha dedicato spazio a una pratica molto particolare di taglio del tonno, perché ha scelto questo tema?
R) A tutto tonno è il primo testo del mio percorso di ricercatore e scrittore gastronomico. Il tema del testo è stato un saluto e un omaggio a un pesce formidabile. Il tonno è un alimento che diventerà esclusivo commercio mondiale di alcune multinazionali del cibo. La confusione di notizie su questo imperatore del mare è ben architettata: chi dice che è in estinzione e chi no. Di sicuro ai piccoli pescatori, a tutti quelli che praticano la caccia marina sostenibile, la vendita nei piccoli mercati, è stato vietato anche il solo pensiero di poter toccare questo pesce che ha nutrito buona parte dell’Europa negli ultimi 10 secoli.
D) Che importanza hanno le origini e il territorio per uno chef?
R) Per molta umanità il territorio è motivo d’identità, per pochi altri rappresenta un luogo da lasciare o al quale dire “no” per verificarne il valore rispetto ad altri. Io sono legato alla mia terra perché ho detto molte volte “no” all’autocelebrazione tipica degli abitatori-cuochi di tanti territori. Per verificare il valore delle identità culturali, e anche gastronomiche, della mia Sicilia, ho messo in campo il viaggio. Lo sguardo si è rivolto a molti territori italiani, frequentati, masticati, indagati; gastronomia e pure fito alimurgia, ricerca sulla bio-diversità delle specie botaniche commestibili, studio della storia della cucina, dai ricettari di Archestrato da Gela del III secolo a.C. Toccando le radici si apprezzano molte cose: lo stile agricolo e contadino, la qualità dei colori-alimento che costituiscono la tavolozza del cuoco, il mare, la musica popolare, i pensatori e poeti “falliti” di gastronomie disperse e via discorrendo. Il mio territorio d’elezione è quello siciliano anche perché l’ho messo a confronto e apprezzato per la sua complessità. Il mio approvvigionamento annuale tocca le 3 province della Sicilia orientale, in cui è facile individuare produzioni agricole e spontanee fino ai trecento metri della cima arsa dell’Etna.
D) Come definirebbe la sua cucina?
R) Esercito due diversi registri per raccontare il mio affetto per la cucina. Adoro eseguire le ricette tradizionali in modo rispettoso e radicale. Ne elimino le cotture lunghe, correggo l’unto e mantengo la materia prima viva e rispettata. In generale, cerco di toccare quei tasti che portano al completo rilassamento degli sfinteri dell’anima, per dirla con Manuel Vasquez Montalban. Un autore stimato fino al punto da ritenerlo una via di riferimento per esercitare il terzo lato del mio essere cuoco, e cioè la parte espressionistica e teatrale. Le composizioni gastronomiche, in quest’ultimo caso culinario, comprendono qualsiasi fonte d’ispirazione, dalla semplice espressione “Spaghetti allo scoglio” sino all’analisi ipotetica del valore aromatico di un lenzuolo matrimoniale che genera un piatto da comodino. Sul versante scenico, ho al mio attivo una commedia, Il Timballo del Gattopardo, nel ruolo di co-protagonosta con Carlo Cartier, e sono stato autore e attore per il concerto Nenti.
D) Cosa ne pensa della filosofia del “Km.0″?
R) Questa espressione del prodotto a distanza breve è molto sana, politicamente destabilizzante per il mercato della GDO. È un’utopia, perciò bella. Difficile da esercitare, ma molto corretta per quella cucina fragrante e croccante che non accetta compromessi di cotture in sottovuoto spinto e plastica trasparente.
D) Secondo lei qual è la nuova frontiera verso cui si sta orientando la cucina italiana in generale?
R) L’asse dei consumatori si taglia in due, come accade per le classi italiane: da una parte il foie gras e triglia del cuoco-vate, dall’altra 71 milioni di pizze surgelate vendute nel 2014. A fatica, molti consumatori cercano di capire i labirinti degli effettivi valori della nutrizione e di districare le mezze verità sui veleni nascosti nel cibo. Micheal Pollan risponde esaurientemente a questi temi, con un in bocca al lupo per chi vorrà leggere il suo Dilemma dell’onnivoro. L’uomo e la donna che guardano alla cucina vegetariana sembrano aumentare. Questo interesse, se associato a una scelta di prodotti coltivati senza sostanze chimiche e di sintesi, guardano a una cucina sana, ma sempre un po’ utopista. Il futuro al momento sembra contemplare da un parte una crescente presenza di cibo precotto, da scaldare in un baleno e, dall’altra, una cucina di nicchia, lussuosa, magari vegana, ma riservata a pochi.
D) L’Italia detiene ancora un primato per la qualità delle materie prime e della dieta mediterranea?
R) Le materie prime rimangono eccellenti, anche se abbiamo perso il primato di produzione interna di pomodori e frumento. Spesso, noi cuochi, fatichiamo a capire se il grano, la farina che stiamo manipolando non vengono invece da altri continenti. La dieta mediterranea se la passa male. È rimasta intrappolata nelle maglie delle molteplici interpretazioni. Quando i contadini italiani la esercitavano non era ancora scoppiato il boom economico degli anni Sessanta. Adesso è qualsiasi cosa, dalla fettuccina alla carbonara al sugo della nonna.
D) Secondo lei quali sono i criteri da seguire per una cucina a basso impatto?
R) Per chi esercita la professione è molto complicato abbassare l’impatto ambientale. Le realtà agricole e artigianali sono umiliate da tempo all’obbligo di leggi industriali in cui si devono usare arnesi e accessori di PVC, applicare norme spaziali quale l’HACCP, un tempo nata per individuare i punti critici di contaminazione alimentare per gli astronauti in orbita e oggi indicazione dei governi occidentali per tutte le aziende alimentari. Se pure si volessero ridurre le emissioni nocive la cosa è piuttosto complicata.
Daniela Falchero