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Green Italia: il discorso di Della Seta all’assemblea di fondazione Top Contributors

Riportiamo, in versione integrale, la relazione programmatica di Roberto Della Seta all’assemblea di Green Italia, il nuovo soggetto politico ecologista e “trasversale” presentato a giugno scorso al Maxxi di Roma e fondato formalmente oggi, durante la convention al Teatro Quirinetta, dove sono intervenuti come ospiti, insieme ai fondatori, anche il presidente del FAI Andrea CarandiniDon Luigi Ciotti di Libera, il segretario generale dei Verdi Europei Jacqueline Cremers e il sindaco di Roma Ignazio Marino.

Buongiorno a tutti, grazie per avere accolto il nostro invito a partecipare da fondatori a questa assemblea. Vi rassereno: non farò una relazione in stile congressuale. Proverò piuttosto a dire, per punti, cosa è per me – meglio: cosa vuole essere – Green Italia. Siamo partiti nove mesi fa, come in ogni gravidanza che si rispetti. Per una coincidenza che spero non sia iettatoria, il concepimento è avvenuto nelle ore in cui nasceva il governo Letta e il parto segue di qualche giorno la nascita del governo Renzi. Non so dire quale dei due eventi vada considerato con più severità,  ma certamente un dato li accomuna: la totale assenza della questione ecologica – come grande problema italiano e come preziosa soluzione ai problemi italiani – dall’orizzonte politico della maggioranza di allora come di quella di oggi.

Qui, io credo, c’è il segno evidente della necessità di una “cosa politica” come Green Italia.

Per un movimento politico che nasce, definire se stesso è un passaggio obbligato. Green Italia, leggo dal documento che fece da base al lancio della nostra iniziativa, “è il movimento politico di chi crede che l’ambiente, l’ecologia, i beni comuni, la cultura e la bellezza italiane, la legalità sono valori irrinunciabili ma oggi calpestati, e sono interessi decisivi per mettere alle spalle la crisi sociale, economica, ambientale di questi anni e rendere il nostro Paese nuovamente protagonista in Europa e nel mondo”. Valori e interessi, aggiungo, decisivi sia per affrontare nei suoi numerosi e talvolta drammatici aspetti la crisi ecologica – elenco qualche titolo: Ilva e inquinamento industriale, “terra dei fuochi”, ecomafie, mobilità urbana al collasso, rischio Ogm, dissesto territoriale… – sia come chiave più generale per mettere l’Italia sulla via di un futuro desiderabile.

La missione che ci siamo dati, come capite, è complicata. Lo sarebbe dappertutto, lo è tanto più in Italia dove l’ecologia è letteralmente assente dalla politica. Quali le cause, di chi la colpa di questa “assenza”. Certamente una parte di colpa l’abbiamo noi ecologisti “storici”, che fino ad ora non siamo riusciti a convincere gli italiani che l’ecologia non solo è una preoccupazione giusta ma è utile, “conviene”: utile a vivere meglio, a ridare speranza e fiducia a noi stessi e ai nostri figli, a valorizzare i talenti e i meriti dell’Italia e degli italiani. Ma più di tutto, io credo, per dare spazio e peso all’ecologia, al colore “green”, nelle scelte pubbliche sono mancate classe dirigenti capaci di una visione, di un progetto che metta l’interesse generale sopra i mille interessi parziali e costituiti.

Si dice spesso, parafrasando un famoso film dei fratelli Coen, che l’Italia non è un Paese per giovani. Questa è una verità persino banale, ma è come la punta di un iceberg. L’iceberg, davvero un immenso blocco di ghiaccio, è nel fatto che l’Italia ha classi dirigenti letteralmente ibernate, élite politiche, industriali, sindacali, giornalistiche, intellettuali che nel complesso, e con le dovute eccezioni, si sono dimenticate di entrare con la testa nel nuovo secolo. Certo è un problema di età anagrafica, ma non solo.

Da questo punto di vista, bisogna ammetterlo, il vero punto di forza dei grillini è che loro, sicuramente, sono contemporanei. Spesso dicono e fanno immense cazzate, ma sono contemporanei. Questo riguarda anche l’ambizione di Green Italia. Per esempio: è probabile, ed è desolante, che quando Beppe Grillo nel suo incontro in streaming con Matteo Renzi ha nominato le energie rinnovabili, quella sia stata la prima volta, streaming o non streaming, in cui un tema del genere è stato evocato nelle consultazioni per formare un nuovo governo.

E’ probabile, è desolante e non è normale. Negli Stati Uniti la questione del climate change è stata uno dei grandi terreni di scontro tra Obama e il Congresso repubblicano. In Inghilterra il leader laburista Milliband attacca Cameron sullo stesso tema, le strategie per stabilizzare il clima. In Francia nella maggioranza di cui fanno parte anche gli ecologisti si litiga spesso sulle politiche ambientali. In Germania i tempi di uscita dal nucleare e la guida delle politiche energetiche sono stati tra gli argomenti più controversi della lunga trattativa tra CDU e SPD per formare l’attuale governo.

E in Italia? In Italia l’assenza della questione ecologica dall’agenda politica – della questione ecologica come grande problema italiano e come soluzione a molti problemi italiani – è una costante di ogni maggioranza e di ogni governo. Su questo, le “larghe intese” funzionano alla grande e funzionano da tempo. Funzionano con esiti persino paradossali: siamo un Paese dove le rinnovabili hanno conosciuto negli ultimi anni un grande boom e dove gli ultimi tre ministri responsabili per l’energia – il forzista Romani, il centrista Passera, il democratico Zanonato – hanno avuto come principale preoccupazione quella di ostacolarne lo sviluppo, cioè di mettere il piombo nelle ali a uno dei pochi settori produttivi che in questi anni di crisi è cresciuto vedendo nascere aziende e posti di lavoro. Altrove sarebbe impensabile, in Italia succede sistematicamente.

Spesso si sente ripetere, l’hanno detto in passato anche politici importanti, che l’Italia non è un Paese “normale”. Bisogna intendersi sul concetto di normalità. Per noi non è normale un Paese dove la discussione sui governi da fare e da disfare ignora temi che dappertutto sarebbero in cima all’agenda. Ignora che in una parte del nostro territorio grande più o meno quanto l’Umbria – la “terra dei fuochi” – si vive da decenni in una sospensione pressoché totale di ogni criterio di legalità e del minimo rispetto per la vita delle persone. Ignora che in una delle più grandi città del nostro Sud, Taranto, sempre da decenni si consente a un’industria di fatto illegale di avvelenare sistematicamente l’aria, l’acqua e il terreno e soprattutto le persone. Ignora che siamo la patria delle ecomafie ma siamo uno dei pochissimi Paesi europei senza reati specifici contro il crimine ambientale. Ignora – le ignora la politica, le ignorano le rappresentanze industriali come quelle sindacali – migliaia di imprese “green” cresciute “all’insaputa” dei governi e spesso loro malgrado, imprese che in questi anni di crisi hanno remato faticosamente, ma spesso con successo, controcorrente. Ignora che mentre l’Italia a ogni pioggia paga un tributo drammatico di danni e anche di morti, in Parlamento c’è ancora chi propone, e con la complicità delle “larghe intese” riuscirà temiamo ad imporre, condoni più o meno mascherati. Infine, ignora o calpesta lo straordinario tesoro di bellezza e di cultura (saluto il Prof. Andrea Carandini!), ignora o calpesta l’importanza decisiva che hanno per un Paese come il nostro la scuola, la ricerca, l’università. Su questo, voglio citare un articolo recente del direttore di “Le ScienzeMarco Cattaneo sui finanziamenti assegnati dallo “European Research Center” a scienziati di tutto il mondo per progetti di ricerca molto costosi. Bene, anzi malissimo: perché il 15% delle “borse” è andato a scienziati italiani – un dato di assoluta eccellenza -, ma più di metà di questi lavora fuori dall’Italia; non è finita: mentre molti degli scienziati non europei che hanno ricevuto i finanziamenti svolgono i loro progetti in Germania, in Francia, nel Regno Unito, nemmeno uno lavora in Italia. Siamo primi imbattibili per fuga di cervelli, siamo ultimi per capacità di attrarre cervelli dal mondo. Come ha scritto recentemente la senatrice a vita Elena Cattaneo in una lettera aperta al Presidente Napolitano, “così il Paese muore”.

Qualcuno dei nostri molti amici “de sinistra” direbbe: dipende tutto dal ventennio berlusconiano. Io non la penso così. Berlusconi ha reso più gravi ed evidenti molte arretratezze e inadeguatezze italiane, ma è stato il sintomo degenerato molto più della causa dei nostri problemi attuali. Nessuno dei mali italiani, compresi i mali ambientali, nascono con Berlusconi: non la corruzione, non l’evasione fiscale, non gli intrecci tra mafia e politica, non il prevalere sistematico del clientelismo e del familismo sul merito, non l’abusivismo edilizio, non la voragine del debito pubblico, non il dissesto del territorio, non l’Ilva e non la “terra dei fuochi”… E anche adesso: non è colpa di Berlusconi Zanonato, non è colpa di Berlusconi Debora Serracchiani che difende gli OGM, non è colpa di Berlusconi se il Pd in Parlamento vota per un condono edilizio mascherato. E nemmeno è colpa di Berlusconi se le politiche ambientali contano così poco nella testa di Renzi da portarlo a mettere il commercialista di Casini a Ministro dell’Ambiente…

Quanto alla sinistra cosiddetta radicale, mi pare che nemmeno lei abbia mai fatto i conti con la novità rappresentata dalla questione ecologica. Si capisce dal suo sguardo sulla crisi di questi anni. E’ miope leggere questi sei anni di recessione, di erosione dei sistemi di welfare, di perdita di milioni di posti di lavoro come soltanto il frutto avvelenato del cosiddetto neo-liberismo.  Io non ho dubbi che l’idea del mercato come luogo non solo dello scambio di merci e servizi, ma luogo dove si decidono le scelte pubbliche, abbia fatto danni enormi, abbia indirizzato i processi di globalizzazione in direzioni contrarie all’interesse generale dei cittadini e dei popoli. Ma fermarsi qui vuol dire, ancora una volta, fermarsi al Novecento. Se noi crediamo nel “green new deal” come indispensabile base di avvio di una stagione di rinnovata prosperità per l’Europa è perché pensiamo che la crisi attuale sia più profonda, più strutturale, più “epocale” di quanto dicano e pensino coloro per i quali basterebbe, per dare nuovo benessere all’Europa, ritornare a Keynes. No, Keynes non basta. Non basta perché la crisi dell’Europa è anche il risultato di un mondo che sta cambiando, di un’Europa, per dirla con Ulrick Beck, che per la  prima volta nella sua storia “fa l’esperienza della propria finitezza”, del proprio limite. Non siamo più, e probabilmente non saremo mai più, il centro e il motore del mondo: come hanno scritto recentemente Mauro Ceruti (che saluto qui in sala) e Edgar Morin, “l’Europa, oggi, non è più dominatrice. L’Europa è diventata una provincia del mondo, peraltro sempre meno importante per peso demografico, forza militare, risorse energetiche e minerali”. Male o bene che sia (per me non è un male), questa è l’evidente verità. Allora il “green new deal” è per l’Europa l’unica occasione realistica sia per riconciliare l’economia con le dinamiche ecologiche, sia per riprendere  fiato e gambe come protagonista della globalizzazione.

L’avventura di Green Italia è partita nove mesi fa, e credo che in questo tempo abbiamo fatto un buon lavoro. Siamo un movimento umile, consapevole dei propri limiti. Ma dobbiamo avere anche una giusta dose di arroganza. Noi siamo già la buona politica che vogliamo costruire: lo siamo a Taranto, in Sicilia, nelle Marche, nella “terra dei fuochi”, a Padova, a Torino, a Brescia, a Milano. A proposito di Padova, ci tengo a salutare Francesco Fiore, uno dei 20 fondatori di Green Italia, che nelle primarie per la scelta del candidato sindaco della sua città con il laboratorio civico “Padova 20.20” ha preso quasi il 40% dei voti sfiorando un’incredibile vittoria!

In questi mesi qualcuno ci ha chiesto, nei prossimi in molti continueranno a chiederci, “con chi stiamo”, come ci collochiamo rispetto a sinistra e destra. Potrei cavarmela affidando la risposta ad Alex Langer: esattamente trent’anni fa Langer invitava gli ecologisti a sfuggire alla logica tipicamente italiana per cui “il ‘con chi stai’ per troppo tempo ha prevalso e continua a prevalere sul ‘cosa vuoi ottenere’, ‘cosa proponi’, ‘quale cambiamento vuoi utilizzare’”. Ma voglio aggiungere qualcos’altro. Non siamo noi a non scegliere tra sinistra e destra, sono la sinistra e la destra tradizionali a non avere oggi, nei rispettivi campi, punti di vista organici e condivisi sui temi di più urgente attualità. Cito su questo Dany Cohn-Bendit che ha appena scritto una bellissima prefazione alla nuova edizione del libro di Norberto Bobbio “Destra e sinistra”: sull’ecologia, sul destino dell’Europa tra opzione federalista e ritorno alle sovranità nazionali, sull’alternativa tra relativismo e universalismo, sul rapporto tra società e Stato, destra e sinistra oggi non esistono come visioni coerenti. Qualcosa, credo, vorrà dire…

Invece che qualificarci in rapporto a riferimenti ideologici oggi privi di senso, noi di Green Italia preferiamo definirci su valori attuali e davvero, così li riteniamo, non negoziabili. Mi piace descriverli utilizaando come pretesto la discussione, spesso stantia, che si fa in Italia sulla cosiddetta antipolitica. Ecco, per noi l’antipolitica non è di chi denuncia la corruzione oppure i privilegi di caste e corporazioni. I veri antipolitici sono quelli che per anni hanno contrabbandato come un’invasione di pericolosi alieni l’arrivo sulle nostre coste di alcune migliaia di persone in fuga da guerre e persecuzioni, e hanno lasciato sola una piccola comunità – la comunità di Lampedusa – ad affrontare il problema (saluto il sindaco Giusi Nicolini, che non ha potuto raggiungerci). I veri antipolitici sono quelli che chiamano la legalità giustizialismo, varano condoni edilizi a oltranza, hanno finora rifiutato di introdurre i crimini ambintali nel codice penale. I veri antipolitici sono quelli che considerano più importante un’opera inutile e costosissima come il mega-tunnel Torino-Lione o l’acquisto di decine di bombardieri F35 piuttosto che rendere il nostro territorio meno insicuro e dare ai Comuni risorse sufficienti per la manutenzione urbana.

Noi di Green Italia dunque ci sentiamo “altrove” rispetto alla divisione ormai solo virtuale tra destra e sinistra novecentesche, ma naturalmente sappiamo che quando in Italia si voterà di nuovo – perché prima o dopo si tornerà ad eleggere un Parlamento che sia espressione di una legge non incostituzionale… – saremo chiamati a ragionare anche di possibili alleanze, e sappiamo che non è immaginabile un dialogo, una collaborazione con l’attuale destra italiana: la destra del nucleare, dei due condoni edilizi generalizzati, delle leggi “ad personam”, la destra che nega persino l’esistenza dei cambiamenti climatici. Però la nostra ambizione, lo ripeto ancora, non è intrupparci in un centrosinistra come quello che c’è: ogni nostra decisione, anche sulle alleanze elettorali, dovrà lasciare intatta e anzi rafforzare la scelta da cui è nata Green Italia, la scelta di dare rappresentanza visibile e autonoma all’ecologia in politica.

Green Italia nasce in un rapporto stretto, esplicito con i Verdi Europei. Noi ci sentiamo parte della famiglia dei Verdi Europei, ne condividiamo il programma e gli obiettivi politici. Condividiamo soprattutto, con i Verdi europei, la convinzione che solo un “green new deal” possa sconfiggere le crisi del mondo attuale. Serve un “green new deal” per fermare la crisi ambientale e climatica globale, che mette in pericolo l’idea stessa di civiltà umana. Serve un “green new deal” per rendere concreto e rispettato il diritto di ogni persona e di ogni popolo a un vero benessere, per umanizzare l’economia sottraendola al dominio anonimo e amorale dei grandi poteri finanziari. Serve un “green new deal” all’Europa, per farla battistrada e protagonista della rivoluzione tecnologica ed economica “green”. Serve infine, ancora di più, un “green new deal” all’Italia, per fronteggiare una crisi sociale ed economica ed una crisi ecologica da noi più gravi e profonde che nel resto d’Europa. Su questo non la faccio lunga, le nostre proposte “programmatiche” sono sintetizzate nel documento preparato per questa assemblea e usciranno ancora più nitide dalla discussione di oggi. Cito soltanto quattro obiettivi che danno il senso della radicalità della nostra sfida: noi pensiamo che sia realistico e sia necessario per l’Italia portare al 100% il peso delle rinnovabili sui consumi di elettricità entro il 2050, portare rapidamente a zero il consumo di suolo libero, dare priorità assoluta al recupero di materia dai rifiuti, raddoppiare in dieci anni le merci e i passeggeri che si spostano non su strada. Aggiungo anche che l’Italia per la sua storia, per alcuni caratteri originali della sua struttura economica e sociale, ha una vocazione speciale al “green new deal”.  Se è “green” l’economia che produce benessere e prosperità senza intaccare il capitale naturale, allora si può dire che l’Italia l’economia verde l’ha inventata, l’ha praticata con successo, prima di tutti gli altri: è la “green economy” che da secoli produce ricchezza utilizzando come materie prime la bellezza, la creatività, la convivialità, la qualità urbana, il legame sociale e culturale tra economia e territorio; materie prime immateriali e dunque ecologiche, talenti dei quali abbondiamo e che oggi sono la nostra arma migliore, forse l’unica vera arma su cui possiamo contare, contro i rischi di declino.

Per dare un futuro solido e sostenibile all’economia italiana bisogna che questa “lezione”, su cui già oggi migliaia di imprese costruiscono successo, competitività, capacità di resistere meglio alla crisi (suggerisco su questo la lettura dei materiali di Symbola, la fondazione diretta da Fabio Renzi e del rapporto Ambiente Italia 2014, in cui si dimostra che l’economia italiana, numeri alla mano, è persino più verde di quella tedesca), diventi l’anima delle politiche per un rinnovato ma diverso sviluppo. Dobbiamo archiviare per sempre il “modello-Ilva” – lavoro contro salute – e l’idea, illusoria oltre che eticamente inaccettabile, che la strada per accrescere la nostra capacità competitiva sia nei bassi salari e nella riduzione dei diritti sindacali. L’Italia, insomma, deve ricominciare a “fare l’Italia”, puntando sulle sue vocazioni ed eccellenze – manifattura ed agricoltura di qualità, turismo, economia della cultura, ricerca e innovazione tecnologica –  e rischiarando le sue troppe zone d’ombra che gravano anche sulla vita economica: illegalità, inefficienza dello Stato, debolezza dei sistemi educativi e formativi, arretratezza e insostenibilità ambientale della rete dei trasporti, pessimo stato, particolarmente nel Sud, delle infrastrutture ambientali (acquedotti, depurazione delle acque, gestione dei rifiuti).

Ancora, noi di Green Italia ci sentiamo – per usare una felice espressione di Barbara Spinelli – “europeisti insubordinati”. Con tutte le sue imperfezioni e i suoi limiti, l’Europa-comunità dell’ultimo mezzo secolo è una conquista preziosa, da difendere contro ogni tentazione, spinta neo-nazionalista. Il dramma che sta vivendo l’Ucraina fa vedere che l’Europa, per chi è europeo ma vive tuttora sotto regimi autocratici e illiberali, resta una speranza, un’ambizione, un sogno. Però l’Europa non più rimanere in mezzo al guado: o trova la forza, il coraggio di darsi istituzioni pienamente democratiche e autenticamente federaliste, di segnare una radicale discontinuità con le politiche conservatrici che l’hanno governata in questi anni, oppure è destinata a una rapido declino e forse a una vera disgregazione. Da “europeisti insubordinati” avremmo voluto, vorremmo ancora, che nel prossimo Parlamento Europeo l’Italia non fosse rappresentata soltanto dai “conservatori” dalle larghe intese tra popolari e socialisti e dalle forze anti-europee. Per questo abbiamo proposto una lista aperta a tutti coloro – verdi o sinistre radicali, liberali o socialisti – che vogliono più Europa ma un’Europa pienamente democratica e coraggiosamente proiettata nel futuro. Finora quest’idea non ha fatto molti proseliti, sono prevalsi gli interessi di partito che come sapete sono tanto più resistenti quanto più i partiti sono piccoli. Ma noi non rinunciamo: malgrado una pessima legge elettorale che scoraggia la partecipazione di chi non è “allineato” – legge che speriamo la Consulta bocci come ha fatto con il Porcellum e come già avvenuto in Germania – continueremo a batterci per una presenza nelle elezioni del 25 maggio delle nostre ragioni di “europeisti insubordinati”.

Come ultima “auto-definizione” propongo questa: noi di Green Italia ci sentiamo decisamente “progressisti” ma crediamo che la parola progresso, per avere ancora senso e futuro, debba rinnovarsi profondamente. Il progresso, lo sviluppo umano, il benessere sociale sono inscindibili non solo dalla giustizia sociale e da un forte impegno redistributivo dello Stato, ma anche e sempre di più da una difesa rigorosa e pregiudiziale della salute e dell’ambiente di vita delle persone. Così, per noi l’energia solare è più moderna e progressista del petrolio e del carbone, il riciclaggio dei rifiuti è più moderno e progressista della discarica, l’Ilva di Taranto è profondamente, temo irrevocabilmente “reazionaria”.

Oggi dobbiamo decidere, tra l’altro, sulla forma da dare a Green Italia. Fino ad ora non abbiamo mai usato, per la nostra “creatura”, la parola “partito”, e io credo che dobbiamo continuare così. Non è un fatto nominalistico. Penso che i partiti come strutture stabili e tendenzialmente chiuse siano una nobilissima ma non più attuale eredità del Novecento. La nostra idea è diversa: vorremmo offrire il nome e quel minimo di organizzazione di Green Italia a tutti i cittadini, i gruppi, le esperienze civiche impegnati come noi a costruire le condizioni per un “green new deal” italiano. Senza chiedere atti di fedeltà esclusiva e perpetua. Come ha detto Amartya Sen viviamo in un’epica di identità personali multiple: non sta a noi di decidere se per un iscritto al Partito Democratico o a Sel o magari alla Lega è “compatibile” riconoscersi anche in Green Italia. La decisione non può che essere solo sua.

Ancora, Green Italia non deve separare mai i mezzi dai fini. Per questo dovremo affidare ogni scelta legata all’individuazione delle persone da cui farci rappresentare – i nostri portavoce come i candidati nelle liste elettorali che promuoveremo da soli o insieme ad altri – a una consultazione larga e trasparente di tutti i cittadini che condividono il nostro progetto. E per questo dovremo utilizzare al meglio le possibilità di democrazia e di trasparenza offerte dalla rete: l’agenda digitale non è solo una questione di metodi, di strumenti per rendere più semplice la vita dei cittadini, è prima ancora la cornice di diritti oggi irrinunciabili per ogni società che si voglia aperta, inclusiva, amichevole.

Pima di concludere, tocco un ultimo tema importante: il nostro rapporto con i Verdi Italiani. Come ho ricordato all’inizio, oggi l’ecologia è assente dalla politica italiana. Ma non è sempre stato così. L’Italia è stato uno dei primi Paesi europei con eletti Verdi in Parlamento, il primo con un ministro Verde e il primo con un sindaco della capitale Verde. E’ merito dei Verdi se abbiamo leggi ambientali d’avanguardia, dai parchi ai rifiuti alla caccia. Non è questa l’occasione per rifare la storia dei Verdi Italiani, per discutere delle ragioni che ne hanno progressivamente indebolito la presenza politica e istituzionale. In questi mesi sia noi che la Federazione dei Verdi – saluto i loro portavoce Angelo Bonelli e Luana Zanella, che sono stati tra i fondatori di Green Italia – abbiamo lavorato perché questo nostro nuovo cammino possa vedere la partecipazione di tutti gli ecologisti impegnati in politica. Questo sforzo deve continuare, ma sia noi che, sono convinto, i Verdi Italiani abbiamo piena consapevolezza che mettere insieme gli ecologisti non basta: Green Italia non è nata per riunire chi viene da un passato comune d’impegno ambientalista: “a unirci – cito ancora dal nostro primo documento – non sono le convinzioni del passato, a unirci è una stessa idea di futuro che finora in Italia non ha trovato spazio nella politica”. Che siano ecologisti o no, noi ci rivolgiamo alle donne e agli uomini che nel loro lavoro, nelle loro scelte di consumo, nel loro impegno civico già oggi fanno vivere un’Italia “green”: agli imprenditori e lavoratori della “green economy”; ai cittadini che hanno dato vita a esperienze di partecipazione politica civica a forte impronta “green”; ai movimenti che si battono per salvare i propri territori dal degrado e da opere e scelte pubbliche distruttive; ai consumatori che  si organizzano nei “gruppi di acquisto solidale” proponendo nuovi modelli di consumo critico… Sulla capacità di risultare credibile e utile per questi mondi, pressoché invisibili per l’attuale politica, si gioca la scommessa di Green Italia.

Chiudo citando ancora il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Annunciando davanti alla Direzione del Pd la sua auto-investitura per Palazzo Chigi ha detto che “si diventa grandi quando si cominciano a fare anche cose che non piacciono”. Forse perché ho qualche anno più di lui, ma per me è il contrario: si diventa grandi – si diventa vecchi? – quando si ricominciano a fare solo le cose che piacciono! Per parecchio tempo ho pensato, con un eccesso di presunzione, di aprire all’ecologia partiti, mentalità politiche strutturalmente anti-ecologici. Non mi è piaciuto. Con Green Italia provo, vogliamo provare, a portare direttamente nella politica la testa di un’ecologia moderna, riformatrice. Non so se ce la faremo, ma mi piace di più. E credo che per questa piccola, inedita comunità formatasi con Green Italia sia un po’ lo stesso che per me.

Roberto Della Seta

 

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